lunedì 19 ottobre 2009

Caso Mondadori, continua la caccia al giudice Mesiano

da http://antefatto.ilcannocchiale.it
Il Fatto Quotidiano n°21 del 16 ottobre 2009
di Marco Lillo



Il giudice Mesiano, quello che ha osato condannare la Fininvest a pagare 750 milioni di euro, è stato seguito mentre passeggia per Milano e va dal barbiere. Il servizio, trasmesso da “Mattino5” di Claudio Brachino, mostra il giudice che fuma e “non riesce a stare fermo”. D’altronde “alle sue stravaganze siamo ormai abituati”. In coda arriva lo scoop: “Mesiano ci regala un'altra stranezza: guardatelo seduto su una panchina: pantalone blu, mocassino bianco e calzino turchese”. Dietro la caccia all’uomo travestita da giornalismo si intravede lo stile di Alfonso Signorini. Il Cavaliere ha annunciato “notizie” su Mesiano e, dopo avere spedito i cronisti di “Chi” in Calabria per trovare notizie sulla salute e la famiglia del giudice, a Mediaset si dice che proprio Signorini avrebbe avuto l’idea del pedinamento. A un calzino turchese.


lunedì 5 ottobre 2009

E il premier trasforma in complotto un'ordinaria storia di malaffare

da www.repubblica.it
5 ottobre 2009
di Giuseppe D'Avanzo




La politica, per Silvio Berlusconi, è nient'altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali - e qualche "assegno in bocca" - diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale. La collusione con la politica - la corruzione d'un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari - gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d'urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell'economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest - 4000 miliardi di lire - superano l'utile operativo del gruppo).

Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s'inventa "imprenditore della politica" convertendo l'azienda in partito. E' ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all'impunità totale della "legge Alfano" che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).

Non c'è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E' sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere - dietro le insegne dell'interesse pubblico - il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell'"aggressione politica al suo patrimonio", dell'"assedio ad orologeria". Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il "momento politico molto particolare". Piagnucola: "Se è così, chiudo". Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato. Bisogna dunque dire se c'entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c'entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).

Ricapitoliamo. E' il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l'avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L'udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E' salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del "privato corruttore" aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il "magistrato corrotto". Correggono l'errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell'anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo. Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d'un ambiente giudiziario infetto e poi l'attuale suo stato "individuale e sociale" (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell'uomo che - è vero - è un "privato corruttore" perché è "ragionevole" e "logico" che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l'Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un'assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di "privato corruttore" gli resta appiccicato alla pelle.

Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c'entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, "privato corruttore". Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell'"aggressione politica al patrimonio" di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: "Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti".

Occorre allora mettere mano alle sentenze. C'è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell'affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, "record assoluto nella storia della magistratura italiana". In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: "Da un terzo estraneo all'ambiente istituzionale", si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il "gruppo B very discreet") bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell'interesse di chi? "La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell'interesse e su incarico del corruttore" scrivono i giudici dell'Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del "privato corruttore" (Berlusconi). "E' la Fininvest - conclude infine la Corte di Cassazione - la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris", del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.

Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un "privato corruttore". Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha "stabilmente a libro paga" Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene "almeno quattrocento milioni" da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.

Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia - da capo del governo e "privato corruttore" - a lanciare una "campagna" che spaccherà in due - ancora una volta - un'opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un'altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l'opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva. Ripete la solita filastrocca che si vuole "manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l'opportunità di una grande manifestazione popolare". In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell'informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L'Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell'uomo che la governa.

giovedì 1 ottobre 2009

I favori della legge al grande crimine

da http://antefatto.ilcannocchiale.it
Il Fatto Quotidiano n°7 del 30 settembre 2009
di Roberto Scarpinato


Per valutare le possibili ricadute della prossima approvazione del nuovo scudo fiscale, può essere utile ricordare alcuni degli effetti negativi conseguenti all’entrata in vigore del precedente scudo: quello introdotto dal decreto legge 350/2001. In quell’occasione fu regolarizzata una somma globale di circa 73 miliardi di euro. A fronte di tale enorme massa di capitale, furono effettuate meno di trecento segnalazioni di operazioni sospette in tutt’Italia, di cui nessuna che riguardava la Sicilia. Grazie alle garanzie di anonimato accordate da quella legge, non fu possibile selezionare e intercettare il denaro sporco frutto di gravi delitti, ben diversi da quelli di natura fiscale per i quali era stata accordata la non punibilità.

Solo per una fortuita coincidenza investigativa, la procura di Palermo ebbe modo di individuare e sequestrare alcuni milioni di euro che uno dei riciclatori più importanti di Cosa Nostra, già condannato per mafia, stava tentando di fare rientrare in Italia. Ma si trattò solo di una goccia nel mare. Così un enorme e improvviso flusso di capitale sporco refluì come un invisibile fiume carsico nel bacino dell’economia legale, con effetti inquinanti e distorsivi del libero mercato, segnalati da vari indicatori . In quegli anni apparve sulla scena una miriade di nuovi ricchi che acquistavano a tutto spiano pacchetti azionari, immobili, attività imprenditoriali e commerciali con offerte di contante che “non si potevano rifiutare”, per la loro estrema appetibilità rispetto agli ordinari standard di mercato.

In alcune rinomate località turistiche si verificò il passaggio di mano di varie attività alberghiere e di ristorazione. Si registrò anche un singolare fenomeno linguistico: improvvisamente in quei locali si sentirono risuonare parlate siciliane, calabresi e campane, al posto dei precedenti idiomi locali. Del resto ai mafiosi il Centro Nord è sempre piaciuto moltissimo: posti tranquilli dove si può investire e “lavorare” senza problemi, e dove spesso si è ancora convinti che la mafia sia solo una storia di “coppole storte”, un relitto feudale del Sud arretrato.

Per evitare che la legislazione antimafia diventi un’eterna tela di Penelope, che di giorno si tesse con nuovi provvedimenti e di notte si sfila creando enormi zone di opacità impermeabili alle indagini, sarebbe il caso che questa volta non si ripetessero gli errori del passato e, dunque, si dotasse la magistratura di strumenti idonei per intercettare quelli tra i capitali rientrati che non sono frutto di reati condonabili, ma di altre attività criminose.

Atal fine sarebbe quantomeno indispensabile che la nuova legge imponesse espressamente agli intermediari finanziari (le banche che ricevono i capitali fatti rientrare) l’obbligo di comunicare i nominativi dei soggetti “scudati” all’Anagrafe centralizzata dei rapporti finanziari istituita presso l’Agenzia delle entrate, e che l’Anagrafe provvedesse a contrassegnare tali nominativi con un codice convenzionale in modo da consentirne l’immediata individuazione.

Attualmente tale obbligo è previsto solo da una semplice circolare del 2007, che già in tanti si sono affrettati a ritenere non applicabile in quanto non espressamente richiamata dal decreto legge 78/2009 che prevede il nuovo scudo fiscale. Coloro che faranno rientrare o regolarizzeranno capitali derivanti da reati non punibili, non avranno nulla da temere da una simile operazione di trasparenza, giacché la legge garantisce loro l’immunità penale e fiscale. D’altra parte rendere immediatamente “visibili” alla magistratura i nominativi dei soggetti scudati, offrirebbe la possibilità di verificare - nei modi e con le garanzie previste per le indagini penali - se tra costoro si celino prestanome e riciclatori di indagati per reati di mafia ed altri gravi reati, e di sventare così il tentativo di approfittare indebitamente dell’opportunità offerta dalla nuova legge per “ripulire” sotto banco denaro sporco.

Continuare invece a garantire l’anonimato ai soggetti scudati, affievolire per gli intermediari finanziari o addirittura eliminare l’obbligo di segnalare le operazioni sospette potrebbe essere frainteso come un pericoloso cedimento alla cultura dell’omertà, oltre che aprire di fatto un varco incontrollabile al riciclaggio di capitali illegali.

Si correrebbe così il rischio di cadere dalla sindrome della tela di Penelope nella più grave patologia della perturbante doppiezza di uno Stato che prima chiede ai cittadini di esporsi coraggiosamente in prima persona denunciando le richieste estorsive, e poi li invita a voltarsi dall’altra parte quando si tratta di “fare cassa”, accettando il rischio di “regolarizzare” anche gli introiti delle estorsioni. Perché, si sa, “pecunia non olet”.